“Dottoressa, mettiamo un po’ di ossigeno?”…Quante volte, durante un turno di lavoro, ci viene rivolta questa domanda? E quante volte siamo davvero sicuri di agire nel migliore dei modi per il nostro paziente?
Ho da poco letto una viewpoint su Critical Care circa il potenziale danno della ossigenoterapia nelle emergenze mediche e ho provato ad approfondire l’argomento. Nel setting dell’emergenza, infatti , l’ossigeno viene somministrato di routine e in ambito sanitario si ritiene per lo più che alte concentrazioni siano fondamentali per salvare la vita del paziente.
Ma è davvero così? In realtà ci sono alcune situazioni in cui la terapia con high-dose oxygen può avere un impatto negativo sull’ammalato, associandosi ad alterazioni emodinamiche che possono incrementare l’ischemia miocardica e danneggiare la performance cardiaca (a causa dell’aumento dei radicali liberi e dell’effetto vasocostrittore), oltre che avere outcomes sfavorevoli anche in molte emergenze non cardiache.
Per quanto riguarda il dibattito sull’ossigenoterapia nell’infarto miocardico , l’argomento è già stato esaustivamente trattato in un altro post. Mi soffermerò invece sugli “effetti collaterali” dell’O2 in alcune emergenze non cardiache.
BPCO
Nel paziente con bronchite cronica ostruttiva, sono ben conosciuti i danni risultanti da un’alta supplementazione di ossigeno in termini di ritenzione di anidride carbonica: è noto infatti che ciò può causare acidosi respiratoria ipercapnica come conseguenza di incrementato mismatch ventilazione/perfusione e inibizione “iperossica” del driverespiratorio (2).
In un trial randomizzato del 2010 è stato messo a confronto il trattamento con alte concentrazioni di ossigeno rispetto ad una terapia “titolata” su 405 pazienti con presunta BPCO riacutizzata nel setting pre-ospedaliero ed è risultato che la mortalità era significativamente inferiore in quelli che ricevevano ossigeno titolato , piuttosto che alte concentrazioni. Ricordiamo che le linee guida della British Thoracic Society for emergency oxygen use in adult patients raccomandano nel malato critico ipossico non BPCO il raggiungimento di un target di saturazione pari al 94-98%, mentre nel BPCO il trattamento iniziale dovrebbe essere condotto somministrando basse concentrazioni di ossigeno (24-28% di FiO2), guidato dalla misurazione dei gas ematici mediante EGA, allo scopo di raggiungere una saturazione d’ossigeno di 88-92%, evitando un abbassamento del PH arterioso al di sotto di 7.35.
Ma perché si tende a somministrare più ossigeno del dovuto? Bisognerebbe anzitutto ricordare che se l’emoglobina è pienamente saturata, ossigenoterapia supplementare ad alte dosi aumenta solo marginalmente la capacità di trasporto dell’O2. Ad esempio, incrementando la PaO2 da 100 a 150 mmHg, il contenuto di ossigeno nel sangue aumenta solo da 200 a 201.5 mL/L. Secondariamente molti medici credono che l’erogazione di alti flussi di O2 automaticamente risolva la dispnea: in realtà “la mancanza di fiato” è causata prevalentemente dalla ipercapnia e dalla stimolazione dei meccanocettori polmonari .
STROKE
Sebbene il suo relativamente piccolo peso (2% del peso corporeo totale), il cervello umano adopera una quota di ossigeno che ammonta approssimativamente al 20% del consumo dell’intero organismo, rendendolo in tal modo particolarmente vulnerabile alla ipossia. Anche una modesta ipossiemia può rendersi responsabile di danni neurologici cognitivi permanenti. Quando la PaO2 scende sotto i 60 mmHg, si instaura un processo di vasodilatazione ipossica come parte integrante dell’autoregolazione cerebrale (5). D’altro canto invece l’iperossia si associa a vasocostrizione e pertanto ostacola la perfusione cerebrale: si è visto che anche lievi livelli di iperossia sono causa di riduzione nella perfusione della materia grigia, concludendo che sia l’iperossia che l’ipossia possono risultare dannosi per l’outcome neurologico del paziente.
High-dose oxygen può determinare vasocostrizione delle arterie carotidi e delle arterie cerebrali a valle: in soggetti in salute, la somministrazione di O2 al 100% dai 10 ai 15 minuti è associata con un decremento dal 20 al 33% del flusso cerebrale indipendentemente dalla pressione parziale di CO2 . Sono stati pubblicati molti studi circa l’utilizzo della somministrazione di routine di supplementi di ossigeno in pazienti con stroke, giungendo alla conclusione di non sostenere l’uso della ossigenoterapia di routine in questa condizione, perché si è visto un eccesso di mortalità nei gruppi di pazienti “iperossici”. Uno studio recente è lo “Stroke Oxygen Supplementation Study” (SO2S), presentato alla XXIII European Stroke Conference (ESC) tenutosi in Francia, a Nizza nel mese di maggio , in cui si lancia il chiaro messaggio di non somministrare routinariamente ossigeno in tutti i pazienti ictati, specialmente in quelli che non sono davvero ipossici, ma piuttosto sarebbe meglio trattare soltanto coloro che risultano tali dopo accurata valutazione con saturimetria, già in ambulanza e poi in ambiente ospedaliero.
Il trial SO2S è stato condotto per determinare se l’utilizzo ordinario anche solo di basse dosi di O2 per 72 ore in pazienti con ictus ischemico migliori l’outcome e per stabilire se il supplemento notturno sia più efficace di quello continuo. SO2S ha arruolato in modorandom 8000 pazienti con stroke acuto nel Regno Unito entro 24 ore dall’ingresso in ospedale, assegnandoli a tre gruppi: 1) soggetti che ricevevano ossigeno continuo per 72 ore 2)quelli a cui veniva somministrato ossigeno solo di notte 3 ) pazienti che non ricevevano ossigeno routinariamente. La saturazione veniva misurata almeno ogni sei ore durante il periodo di trattamento.
Nei due gruppi trattati, l’ossigeno era erogato attraverso cannule nasali a 3 L/m se la saturazione di base risultava inferiore al 93% o a 2 L/m in caso di saturazione al di sopra del 93%. I risultati hanno ovviamente dimostrato un miglioramento dei livelli di saturazione, ma l’outcomeprimario della disability risultava sovrapponibile nei due gruppi trattati, senza differenze significative anche in termini di sopravvivenza, concludendosi lo studio nel “No benefit of routine oxygen in Acute Stroke” .
Le linee guida AHA/ASA del 2013 “ for the Early Management of Patients with Acute Ischemic Stroke” raccomandano di somministrare ossigeno solo nei pazienti ipossici per mantenere la saturazione > 94% (Classe I, LOE C), mentre non supportano il supplemento nei non ipossici (Classe III, LOE B).
SEPSI E SHOCK SETTICO
E’ stato ipotizzato che la vasocostrizione periferica indotta dalla iperossia possa essere di beneficio nello shock settico riducendo la necessità di ricorrere a grandi volumi di liquidi endovena e ai vasopressori. In realtà nessuno studio ha dimostrato benefici indotti da livelli di ossigenazione al di sopra dei valori normali ed in effetti si è visto che l’iperossia può danneggiare il DO2 (oxygen delivery ) in malati settici. L’ossigenoterapia liberale è stata una pietra miliare nel trattamento dei pazienti critici. Recentemente però anche nei settici è appunto emersa la tossicità della iperossia. In uno studio su European Journal of Emergency Medicine sono stati arruolati pazienti con due o più criteri di SIRS e sospetto di infezione: questi ricevevano 10 L/m di O2 attraverso VentiMask 40%. Di 83 pazienti , 77 avevano una PaO2 maggiore di 9,5 kPa (71 mmHg) con 10 L/m, di cui 51 con iperossia. Sei pazienti mostravano ipossia con 10 L/m di ossigeno. Tra i pazienti iperossici, l’8% è deceduto in ospedale vs il 6% con normossia. Lo studio conclude che nei Dipartimenti d’Urgenza si dovrebbe praticare una titolazione della ossigenoterapia che miri alla normossia nel paziente settico: il decremento della FiO2 è giustificato e sembra essere sicuro, infatti la piccola porzione di pazienti ipossici può essere identificata in tempi rapidi , aumentando immediatamente la concentrazione di ossigeno somministrata.
Le linee guida della Surviving Sepsis Campaign non forniscono raccomandazioni specifiche circa la quota di ossigeno da somministrare in pazienti con sepsi severa o shocksettico; invece viene consigliato di mantenere la saturazione periferica dell’ossigeno tra 88 e 95% in pazienti settici con ARDS e anche in questo contesto gli autori non sostengono l’iperossia.
Riflessioni personali (Roberta Terribile)
Da quanto letto, mi ritornano in mente le parole di un mio Professore della Scuola di Specializzazione, che ricordava: “Attenzione ragazzi, l’ossigeno è un farmaco e come tale ha degli effetti collaterali”. Mi viene da aggiungere che in molte situazioni, l’ossigenoterapia è usata quasi a scopo cosmetico, solo per aggiustare il numerino della saturazione , mentre in realtà bisognerebbe effettuare, mediante EGA seriati, una precisa titolazione “ad personam” e la severa ipossiemia dovrebbe essere trattata prontamente, ma lentamente, incrementando le concentrazioni di ossigeno step-by step allo scopo di evitare la temuta iperossia, perché…Primum non nocere.
E da oggi … “Ossigeno sì, ma con cautela!”
Fonte: http://www.empills.com/– Roberta Terribile |
Le foto presenti sul sito sono state in larga parte reperite su Internet e quindi valutate di pubblico dominio. Se i soggetti o gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione, non avranno che da segnalarlo all’indirizzo e-mail admin@soccorritori.ch, lo Staff provvederà prontamente alla rimozione delle immagini utilizzate. |