Oggi le tecniche di rianimazione sono così avanzate da riuscire nell’impossibile: riportare in vita persone dopo ore di morte clinica. Per esempio, “congelandole”, come racconta il libro di un medico americano.
Il primo, o almeno il più famoso, fu Lazzaro, ma per la scienza non costituisce un precedente. Più interessante, per i medici, è il caso di Joseph Tiralosi, che oggi ha 60 anni, quattro anni fa morì e poi tornò in vita. Portato d’urgenza al New York Presbyterian Hospital in un giorno d’agosto del 2009, in seguito a un infarto, il suo cuore smise di battere per 47 lunghissimi minuti. I medici tentarono di tutto su quello che, di fatto, era un uomo morto: rianimazione cardiopolmonare, defibrillatore, iniezioni di adrenalina. Per impedire che le cellule cerebrali, senza più ossigeno, andassero incontro a danni irreversibili, fecero scendere la temperatura corporea di Tiralosi da 37 a 33 gradi. Finché, dopo quasi un’ora, il suo cuore tornò a battere. Poco dopo si fermò nuovamente per 15 minuti. E di nuovo i medici lo riportarono indietro. Per tutto questo tempo (un totale di 24 ore) il suo corpo rimase in uno stato di raffreddamento indotto. Passata l’emergenza, restò in coma farmacologico per quattro giorni. Quando lo risvegliarono, era fuori pericolo.
La «scienza della resurrezione» è ciò di cui racconta il libro Erasing Death (cancellare la morte) del medico americano Sam Parnia, specialista in tecniche di rianimazione allo Stony Brook university medical center. Resurrezione è una parola che può apparire eccessiva (sa un po’ di miracolo), ma in certi casi le tecniche di rianimazione sfiorano davvero l’impossibile.
«La morte» scrive Parnia «non è un singolo istante, ma un processo biologico che può essere interrotto. E quello che porta i neuroni da uno stato potenzialmente reversibile di danno cellulare a uno stato di morte irreversibile prosegue da pochi minuti ad alcune ore». L’ipotermia, effettuata oggi negli ospedali più attrezzati, ha in tutto ciò un ruolo determinante: nel 2011 (altro caso celebre) l’inglese Arun Bhasin, 53 anni, fu «resuscitato» dopo tre ore e mezzo grazie a una macchina che effettuò sul cuore 100 compressioni al minuto e al raffreddamento corporeo.
«Il concetto di morte cerebrale resta qualcosa di irreversibile, non c’è niente da fare» precisa Giorgio Della Rocca, che dirige la Clinica di anestesiologia e rianimazione all’Università di Udine. «Dopo un arresto cardiaco, però, l’ipotermia indotta, che fa scendere la temperatura interna fino ai 33 gradi, consente di rallentare il metabolismo del sistema nervoso centrale e di allontanare il danno ai neuroni che può insorgere durante le manovre cardiopolmonari. In genere non si scende oltre i 33 gradi, altrimenti si rischia di perdere il controllo della coagulazione. Dopo 24 ore si riprende il riscaldamento».
I modi per «ibernare» il corpo sono diversi: speciali bendaggiattaccati al corpo, dotati di termometro interno e con acqua fredda circolante; cateteri inseriti nei vasi sanguigni in modo che il paziente sia raffreddato dall’interno; oppure (un metodo più nuovo ma meno frequente) si usa un liquido freddo che vaporizza rapidamente ed è spruzzato direttamente nel naso. Secondo uno studio condotto da ricercatori di Norway su 69 pazienti per due anni, l’ipotermia ha aumentato la percentuale di sopravvivenza dal 26 al 56 per cento.
La scienza della resurrezione non si limita a congelare le persone. È anche in grado di prendere il sangue di un paziente che rischia la morte e di farlo circolare esternamente, eliminando l’anidride carbonica e fornendo ossigeno. I medici lo fanno con l’Ecmo, sigla che sta per extra corporeal membrane oxygenation (ossigenazione extracorporea a membrana). «Dopo questo trattamento il sangue viene rimesso in circolo. L’Ecmo ha garantito la sopravvivenza di malati cinque-sette ore dopo un arresto cardiaco» scrive Parnia.
«L’Ecmo è un’evoluzione tecnologicoculturale della circolazione extracorporea, usata in cardiochirurgia a cuore fermo. Consente di fronteggiare sia l’insufficienza respiratoria acuta sia quella cardiaca» aggiunge Alberto Zangrillo, direttore dell’Unità operativa di anestesia e rianimazione cardio- oraco-vascolare al San Raffaele di Milano. «Mettiamo il malato in circolazione extracorporea per mantenere a riposo la funzione del cuore e dei polmoni compromessi, che vengono così bypassati. Tutta la tecnologia della rianimazione, del resto, è in uno stato straordinario di evoluzione, e l’esperienza clinica ci insegna che non è giusto porci limiti temporali, quando capiamo che c’è uno spazio terapeutico per agire».
Se, oggi, ipotermia ed Ecmo sono in grado di riportare in vita le persone, il futuro della rianimazione è ancora più affascinante. Negli ultimi incontri dell’American heart association sono state presentate tecniche per cui si inseriscono molecole di ossigeno all’interno di microparticelle di grasso: iniettando nel sangue milioni di queste molecole, si potrebbero ossigenare artificialmente gli organi di un malato, compreso il cervello, anche quando il cuore si è fermato. Finora la tecnica è stata testata sugli animali, con risultati incoraggianti.
Avere spostato in avanti la soglia tra vita e morte (almeno in casi selezionati) apre la strada a domande che vanno oltre la medicina. Joe Tiralosi, dopo il suo risveglio, raccontò un’esperienza di «premorte»: il classico tunnel di luce e così via. Fenomeni per i quali sono state ipotizzate spiegazioni scientifiche: forse causati da mancanza di ossigeno, forse allucinazioni, forse gli ultimi soprassalti del cervello. «Cosa succede quando il cuore smette di battere? Esternamente è come se la mente, ciò che chiamiamo io o anima, svanisse. Però è lì» riflette Parnia (che non avanza alcuna risposta). «Quanto a lungo continui, non lo so. Ma so che, almeno per qualche ora, il periodo di tempo che impieghiamo per riportare indietro una persona, la coscienza di sé continua a esistere».
Fonte: http://www.panorama.it/ – Daniela Mattalia |
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