L’accesso intraosseo. Una valida alternativa all’accesso venoso nel soccorso al traumatizzato.
Introduzione – Le statistiche sui decessi dei pazienti traumatizzati in fase preospedaliera hanno ampiamente evidenziato come l’emorragia non controllata costituisca una condizione clinica che compromette severamente le possibilità di sopravvivenza. Lo stato emorragico espone il traumatizzato alla cosiddetta “triade letale”, costituita da ipotermia, coagulopatia e acidosi metabolica, condizioni cliniche che ne riducono ampiamente le possibilità di sopravvivenza. Una strategia basata sul mantenimento di target pressori predefiniti, anche ricorrendo all’espansione volemica, può limitare il danno secondario, prevenire gli effetti della triade letale e migliorare l’outcome del paziente.
Ovviamente, l’ottenimento di tali risultati è strettamente dipendente dalla capacità di intervenire tempestivamente per interrompere l’evoluzione del danno da ipoperfusione. Stabilire un accesso venoso può tuttavia risultare difficoltoso; dati di letteratura riportano che in alcuni casi sono necessari dai 3 ai 12 minuti, con una percentuale di insuccesso che va dal 10 al 40%. Le cause di tale insuccesso possono essere correlate, ad esempio, al quadro di shock (collasso delle vene periferiche) o a peculiarità anatomiche del paziente (es. paziente pediatrico o obeso).
Una valida alternativa è rappresentata dall’accesso intraosseo che si sta dimostrando, sulla base di evidenze di letteratura, efficace al pari dell’accesso venoso offrendo inoltre indiscutibili vantaggi in termini di rapidità e sicurezza rispetto ad altre tecniche invasive come il posizionamento di un catetere centrale. Al contrario di quello che si potrebbe pensare, la tecnica dell’accesso intraosseo non è di recente introduzione, dato che le prime esperienze risalgono al 1922 per mano di Drinker e Lund e che in seguito la tecnica è stata utilizzata frequentemente negli anni ‘30 e ‘40. Sono riportati infatti svariati episodi di eclatante successo dell’infusione intraossea nella gestione dello shock emorragico; ad esempio, nel 1945 è stata utilizzata in maniera efficace da un operatore di volo di un B29 severamente colpito durante una missione nei cieli del Giappone, allorché il reperimento di un accesso intraosseo e la successiva infusione di plasma permise di ritardare gli effetti dello shock emorragico in un grave ferito, favorendone la stabilizzazione fino al trattamento definitivo in sede intraospedaliera.
Successivamente, la procedura è stata abbandonata per quasi 40 anni, probabilmente a causa dei presunti limiti rispetto alla possibilità di somministrare farmaci e fluidi al pari dell’accesso venoso periferico. Inoltre veniva ritenuto particolarmente rilevante il rischio di complicanze settiche.
La tecnica fu riscoperta nel 1985 dal pediatra James Orlowsky, che si dedicò ad attività di supporto umanitario in contesti particolarmente difficili come l’India salvando migliaia di bambini. Attualmente la tecnica dell’infusione intraossea è raccomandata dalle linee guida Pediatric Advanced Life Support e da molte autorevoli società scientifiche. In campo militare rappresenta un punto di forza da oramai diversi anni per le Forze Armate americane e per molte Forze Armate europee, data anche la sua efficacia e duttilità d’impiego in contesti contraddistinti da particolari caratteristiche operative.
Attraverso l’accesso intraosseo è possibile somministrare tutti i tipi di farmaci al pari di un accesso venoso, con la sola eccezione dei farmaci chemioterapici. Inoltre è possibile somministrare tutti i tipi di fluidi, per cui anche colloidi e cristalloidi, per un massimo di 10 litri nelle 24 ore.
Situato nella porzione spongiosa delle ossa lunghe e piatte, il compartimento intraosseo rappresenta una rete vascolare estremamente estesa che rimane immodificata in corso di shock (Figura 1).
L’utilizzo di una sacca a pressione, come tra l’altro fortemente indicato nel paziente traumatizzato, consente di “vincere” la pressione del compartimento intraosseo (“no flush, no flow”) e di somministrare un notevole volume di fluidi.
In virtù di tali caratteristiche, l’accesso intraosseo non solo si dimostra perfettamente equivalente all’accesso venoso in termini di efficacia, ma risulta particolarmente vantaggioso quando quest’ultimo risulti difficoltoso da ottenere e sia necessario garantire infusioni o somministrazione di farmaci in maniera rapida e sicura. L’infusione intraossea risulta essere più vantaggiosa anche rispetto al catetere venoso centrale (CVC), che si può associare a importanti complicanze (es. infezioni, pneumotorace, trombosi venosa, embolia gassosa, ematomi) oltre a necessitare di tecnica asettica ed elevato livello di skill da parte degli operatori.
In presenza di difficoltà nel reperimento di accesso venoso periferico, la tecnica intraossea è dunque una strategia rapida (tempo di inserzione dai 4 ai 10 secondi a seconda del device utilizzato) ed efficace su cui investire (acquisizione dei materiali e formazione del personale), che si è dimostrata di estrema utilità anche in scenari particolarmente complessi (es. ambiente ostile, emergenze multiple, maxiemergenze). Non a caso ne è fortemente raccomandato l’utilizzo in campo militare, dove l’ambiente particolarmente ostile e la presenza di attrezzature ingombranti indossate dai militari, impone la necessità di “far presto e bene”.
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Fonte: http://www.ircouncil.it/ |
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